l'orologio e la mosca
Su

 

 

 

Prima di dare la parola a Madame Boberman, due immagini particolari, a sinistra Giacomino all’epoca del loro incontro a Gardone e a destra il Maestro Sciltian nel suo studio di via Bigli a Milano, qualche anno dopo.

 

 

Durante la guerra eravamo sfollati a Morgnaga, una frazione di Gardone Riviera, sul lago di Garda, in una casa rustica che avevamo reso confortevole e dove soprattutto mio marito aveva potuto creare un bello studio, con una vista incantevole sul lago. Il giardino era di una poesia eccezionale, circondato da ulivi e cipressi, con un ruscello che lo attraversava. Il nostro soggiorno a Morgnaga si prolungò più del previsto a causa del bombardamento del nostro appartamento di Milano, in Via Spiga, e a causa del fatto che, nonostante avessimo cercato un altro appartamento a Milano, non trovammo niente che soddisfacesse le esigenze artistiche di mio marito.

 

Così, dal principio della guerra fino al 1947, rimanemmo a Morgana. In un certo senso mio marito era anche contento, perché poteva lavorare senza essere mai disturbato e con la possibilità di trovare facilmente modelli che gli davano grande soddisfazione e ispirazione nel suo lavoro. I quadri di quest'epoca sono diventati molto celebri in tutto il mondo.

 

Però le sere erano spesso tristi e noiose: così qualche volta facevamo dei viaggi nelle grandi città per mantenere dei contatti con la vita artistica.

 

Fortunatamente a Gardone venne aperto un vero casinò, che rallegrò le nostre serate. Infatti talvolta ci andavamo, ma giocavamo con prudenza, memori della perdita di tutti i nostri soldi a Montecarlo (episodio raccontato nella biografia di mio marito, «Mia avventura», ed. Rizzoli).

 

Una sera, seduta al tavolo da gioco, vedendo che mio marito puntava forti somme, mi rivolsi a lui in russo, la nostra lingua madre, rimproverandolo. Mi accorsi allora che un ometto di mezza età ci ascoltava con curiosità. Ad un tratto ci chiese come mai parlavamo russo e mio marito rispose: «Noi siamo di origine russa». L'ometto si allontanò, richiamato da un altro giocatore, e così capimmo che era un ispettore del casinò. Dopo un paio di giorni tornammo e questo ispettore si avvicinò e ci domandò come mai eravamo a Gardone. Mio marito rispose che era un pittore, sfollato da Milano, e che abitavamo temporaneamente a Gardone. Ma a questo punto la curiosità prese anche noi e gli chiedemmo come mai parlasse così bene il russo, malgrado un leggero accento italiano, come mai si trovasse a Gardone e se la sua professione fosse proprio ispettore nei casinò. Lui rispose di getto: «Sono sicuro che voi mi conoscete». Questa frase suscitò in noi ancora più curiosità; sorridendo, lui ci disse: «Io sono il clown Giacomino del circo Ciniselli». Aveva ragione lui: lo conoscevamo. Da bambini, ci promettevano di portarci al circo, se avevamo studiato, per vedere il famoso clown Giacomino, con un suo numero in cui faceva sette piroette di seguito sulla testa, con le gambe per aria e ai piedi degli enormi scarponi. Vedendolo adesso in smoking, a quell'età, ci sembrava davvero un miracolo aver incontrato questo personaggio proprio a Gardone, così lontano dai nostri ricordi d'infanzia.

 

Da quel fatale incontro cominciò una vera amicizia: i suoi racconti della vita del circo attraverso la Russia ci affascinavano; spessissimo lo invitavamo a pranzo o anche a cena, se lui aveva le serate libere.

 

Durante una di queste colazioni sulla nostra terrazza coperta di rose, con la vista sul lago, Giacomino ci raccontò una storia veramente eccezionale: «Un giorno, mentre ero nel mio camerino a truccarmi da clown, improvvisamente entrò il proprietario del circo Ciniselli con un signore molto distinto, che si avvicinò a me e mi disse che era mandato dalla Casa Reale, personalmente dallo Zar. Lo Zar desiderava che io acconsentissi a fare uno spettacolo per rallegrare il piccolo Zarevich. Accettai immediatamente, entusiasta per il grande onore di quell'invito, ma anche spaventato all'idea di eseguire i miei numeri davanti alla famiglia dello Zar Nicola II». A questo punto Giacomino cominciò a raccontare dettagliatamente tutto ciò che seguì quell'invito: «Dopo qualche giorno arrivò al circo un messaggio che indicava la data in cui dovevo trovarmi a Pietroburgo, al Palazzo d'Inverno, residenza dello Zar. Entrando nel Palazzo, vedendo la grandiosità e lo splendore delle sale, mi spaventai a tal punto che credevo di non riuscire ad eseguire i miei numeri. Un inserviente mi condusse in una saletta dove potei indossare il costume da clown per lo spettacolo e truccarmi nel miglior modo possibile. Poi lo stesso inserviente mi guidò attraverso altrettante splendide sale fino ad arrivare davanti ad una porta. L'aprì e io provai una delle più forti emozioni della mia vita nel vedere di persona, seduti su un divano, la Zarina, lo Zar e, sulle sue ginocchia, il bellissimo piccolo Zarevich. Ma mi diede subito coraggio un affettuoso applauso della famiglia dello Zar. Quindi, su un grande tappeto, mi esibii nel mio famoso numero delle sette piroette sulla testa. Lo Zarevich scoppiò in una fragorosa risata che emozionò enormemente i suoi genitori: essi lo abbracciarono commossi. Così, ancor più incoraggiato, eseguii altri numeri con grande gioia dello Zarevich. Salutandomi, mi venne detto di attendere in albergo un invito per andare a ripetere lo spettacolo. Infatti, dopo due giorni, fui richiamato. Ormai non ero più in soggezione ed entrai nel Palazzo piuttosto calmo. Si ripeté quello che era accaduto due giorni prima, solo che io presentai due numeri nuovi che fecero ridere di nuovo lo Zarevich, con grande gioia dei suoi genitori. Alla fine dello spettacolo un lacché portò un cuscino sul quale era una piccola scatola che egli porse allo Zarevich: il piccolo scese dalle ginocchia dello Zar e, abbracciandomi e ringraziandomi, me la consegnò in ricordo delle due belle serate. Tutta la famiglia dello Zar mi salutò con gentilezza e io li ringraziai del regalo che non osavo ancora aprire. Soltanto tornando in albergo aprii la scatola e con meraviglia ...». A questo punto Giacomino smise di parlare e infilò una mano in tasca: tirò fuori una scatoletta di velluto rosso sbiadito, la aprì e porse a mio marito un orologio d'oro su cui erano incise con i brillanti le iniziali dello Zar e la dedica «A Giacomino». Io e mio marito eravamo emozionati nel vedere, lì a Gardone, dopo tutte le peripezie della Rivoluzione e della guerra, l'orologio dello Zar. Gíacomino, avendo perso tutti i guadagni ottenuti lavorando nel circo Ciniselli, aveva potuto salvare solo quell'orologio, per lui così prezioso.

 

 

Nel testo vi è una lieve imprecisione, sulla cassa dell’orologio non vi sono le iniziali dello Zar e la dedica “A Giacomino”, è riportato lo stemma dei Romanov con l’aquila bicapite.

 

 

 

Riprendendo in mano l'orologio, Giacomino lo girò e disse a mio marito: «Adesso, Maestro, le vorrei chiedere un grande piacere, quello di darmi un'altra grande emozione nella mia vita». Mio marito rispose: «Se posso accontentarla in qualcosa, ne sarò felice».

 

Giacomino, guardando fisso il retro dell'orologio, disse a mio marito: «Vorrei tanto che vi dipingesse una piccola mosca». Mio marito si meravigliò e quasi si spaventò: «Ma non sarò mai capace di dipingere su un orologio di tale valore storico una mosca!». Giacomino lo guardò tristemente: «Lei è un grande artista. Vedrà che potrà riuscirci. Io me ne vado: le lascio l'orologio. Lei ci pensi». Ci lasciò, stupiti, a guardare l'orologio sul nostro tavolo. Allora mio marito, senza dire una parola, prese l'orologio e lo portò nel suo studio.

 

Dopo poco mi chiamò e mi disse: «Adesso il problema è catturare una mosca». Tutti i componenti della casa per due giorni non tentarono altro, ma invano. Ad un certo punto, una mattina, mio marito gridò: «Ce l'ho! Vieni subito con un ago!». Con un fazzoletto sul tavolo, mio marito bloccava la mosca in attesa dell'ago per ucciderla: bisognava però infilzarla nel punto giusto, senza rovinare le ali. Alla fine mio marito riuscì a trapassarla nel centro. Si poneva ora un problema pittorico: per fare delle prove di pittura sul metallo, io gli portai dei piattini di ottone. Con il pennello più fino che aveva, dipinse con grande accuratezza dei piccolissimi fiorellini, piccole ali, pensando alle miniature antiche. Poi si chiuse nello studio e ci pregò di non far rumore per non rischiare di fargli rovinare il prezioso oggetto. Dopo qualche ora ci chiamò per mostrarci la più piccola opera d'arte da lui eseguita, che firmò «Sciltian»: la sua più piccola firma. Informammo subito Giacomino, il quale arrivò velocemente. Quando vide realizzato il suo desiderio, egli abbracciò mio marito e disse: «Posso ringraziarla solo cercando di eseguire, alla mia età, il numero che voi vedeste da bambini». Purtroppo Giacomino riuscì a fare solo due giri sulla testa, e non più nel suo vestito da clown.

 

Per finire questo racconto, posso dire che il modello più piccolo ritratto da mio marito fu proprio una mosca.

Elena Boberman Sciltian          

 

 

 

A sinistra è riportato il quadrante dell’orologio con sopra dipinta la mosca, fra le cifre 8 e 10 si legge la tenue firma del Maestro.

A destra e riportata l’immagine dell’anello che insieme all’orologio costituì il segno di riconoscenza dello Zar Nicola II a Giacomino.         

(Note di Michele Cireni)