il dramma
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OPLA' LO SPETTACOLO INCOMINCIA

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Chiuderò queste note sul Circo con il ricordo di un artista italiano tuttora vivente, ma lontano ormai da anni dal Circo. E' un artista che ha avuto fama mondiale, un caro uomo di grande cuore e di nobilissimo animo: Giacomo Cireni, in arte «Giacomino».

Alla pista, Giacomino arrivò prestissimo, a dieci anni. Morto il padre, fantino di una scuderia da corsa, in seguito ad una caduta da cavallo, Giacomino se ne andò con un piccolo Circo di «guitti», incominciando a fare le ossa alle acrobazie e al salto. Diventò in breve un magnifico saltatore, arrivarono le prime scritture con Gatti e Manetti, poi con Becketow, infine con Ciniselli, al Circo Imperiale di Pietroburgo. Fu in Russia che Giacomino toccò la celebrità. Ebbe ad ammiratori i componenti della famiglia imperiale, e scrittori di gran fama, come Alessandro Kuprin, lo vollero amico e consigliere. Con l'autore della «Fossa», Giacomino ebbe amicizia lunga e fraterna; intervistato a Parigi da Umberto Fracchia, quindici anni fa, il vecchio Kuprin disse: «Ho un solo amico al mondo, faceva il clown, si chiama Giacomino. Salutatemelo, quando tornerete in Italia, e ditegli che non l'ho mai dimenticato!».

Allo scoppio della rivoluzione, Giacomino torna in Italia, s'ingaggia con Krone in tournée, resta per alcuni anni con la grande ditta tedesca, poi, desiderando rimanere vicino alla sua vecchia mamma, lascia la pista e, per qualche tempo, si trasporta sulle scene. Ma il clown non può vivere che in pista, sotto lo châpiteau (Grock è una eccezione), e Giacomino abbandona il trucco cordiale, la casacca ampia quanto una coltre, le scarpacce immense. Si mette a fare la vita del semplice borghese, impegnando la conoscenza delle lingue, costruendosi una famiglia.

Non crediate, adesso, che io voglia concludere «in bellezza», e che ceda alla tentazione letteraria. Cercherò di essere sereno e obiettivo, ma voglio concludere con un ricordo personale, vero, vissuto. E lo dedico, questo ricordo, ai ragazzi d'oggi, anche - e, forse, soprattutto, - a quelli che non conoscono o non amano il Circo, e giocano di interesse con i bottoni, i dischetti di latta e le lire svalutate.

Io ho passato un Natale nel Circo, e credo sia stato il più bel Natale della mia vita. Il Circo lavorava a Roma, e Giacomino era la «vedetta» del programma. Arriva Natale. So che Giacomino - per me è come un fratello - avrebbe dovuto passare da solo la festa, allora prendo il treno e capito nella sua carovana. Era la sera della vigilia, prima della mezzanotte bisognava terminare lo spettacolo, Giacomino era in pista per il suo «numero». Dalla porta della carovana arrivavano le battute della famosa «entrata» dell'ape e del miele, sommerse dalle ondate di risa della folla. Tra un subisso d'applausi, il lavoro di Giacomino si conclude, e, dopo pochi istanti, con un cappotto gettato sulle spalle, il clown arriva alla sua casa di legno. Io sono lì, impalato. Giacomino si ferma di botto, mi crede una visione fantomatica, poi mi chiude tra le sue braccia.

Parliamo a lungo. Lui si strucca, sta levandosi le enormi scarpe. La folla passa strombettando e sparando petardi, come si usa alla notte della Nascita. Giacomino è pensieroso, tace per un po', infine azzarda una domanda che evidentemente gli sta molto a cuore. Dice: «Senti, lèvami una curiosità: tu credi che il buon Dio, nascendo, veda anche me, qui, con questa faccia rossa e bianca, queste vesti, queste scarpacce?».

Rido, naturalmente. Ma come può essere, Giacomino, che tu dubiti di una cosa così semplice? Dio vede tutti, si capisce. E perché non dovrebbe vedere te? Perché fai il pagliaccio? Perché vivi nella «roulotte», perché hai il naso rosso e le guance infarinate? Ma che enormità, Giacomino mio!

Non invento, amici. Giacomino, continuando a togliersi la scarpa lunga quanto un suo braccio, cominciò a piangere silenzioso, dolcemente, come un bambino. Io tacevo, solo gli avevo messo una mano sulla spalla, e lui mi aveva implorato con un'occhiata furtiva di sott'in su, vergognandosi di essere così bambino. A mezzanotte eravamo in piedi, spalla contro spalla, a «vedere» nascere Gesù. Uscendo dalla chiesa, lui mi disse: «Domani voglio lavorare come non ho mai lavorato in vita mia. Vedrai». Credo che i bimbi intervenuti a quello spettacolo natalizio ricordino Giacomino ancora adesso. Fu grande. I suoi lazzi non ebbero limiti. L'uomo credente, nell'involucro del pagliaccio, dava all'attore la sua anima ingenua e perciò senza limiti nei confini dello sforzo; senza restrizioni nei limiti delle possibilità fisiche. I suoi lazzi già noti presero maggiore consistenza, e l'improvvisazione gli venne geniale e spontanea nel desiderio e nell'intento di superarsi. Il suo stesso compagno, il tony Tanti, pur essendo un'ottima spalla, faticava a tenergli testa, a riconcorrerlo e riprenderlo, a «lavorare» con lui in quel lavoro improvvisamente moltiplicato. E il capopista, Ferruccio Osti, il classico «signor Ferruccio» di tutte le piste, sgranava tanto d'occhi e non riusciva a metter freno alle matterìe di Giacomino. Nessuno, nelle coulisses del Circo, riusciva a capire il perché di tanto slancio, di tanto ardore, di tanta irrefrenabile comunicativa. Lo sapevo io solo, rannicchiato in una poltroncina a fianco della parade. Giacomino acquistata una certezza, lavorava - certo senza rendersene conto - anche per uno spettatore nato da poche ore. Sperava, nel suo grande cuore di buon ragazzo cinquantenne, di far sorridere Qualcuno, affacciato da un posto d'onore, lassù in alto, oltre la tenda grigia dello châpiteau...